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La martoriata Repubblica Centrafricana rischia di diventare un nuovo Mali?

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La Repubblica Centrafricana è uno scatolone di terra, foreste e diamanti incastonato nel mezzo del Continente Nero, senza alcuno sbocco sul mare e circondato da Paesi altamente instabili. Ex colonia francese, è divenuta drammaticamente famosa in tutto il mondo solo per il suo ex dittatore, anzi “imperatore”, Bokassa, il tiranno che si arricchiva con il monopolio del commercio dei diamanti e mangiava (non metaforicamente) i suoi nemici politici. Deposto il dittatore a seguito di un intervento militare francese nel 1979, la Repubblica Centrafricana non ha mai conosciuto un governo stabile.

Da dieci anni esatti era governata dal presidente François Bozizé, un ex generale di Bokassa, sopravvissuto ai governi successivi per poi riuscire a spodestare il presidente Patassé con un golpe militare. Bozizé ha governato più o meno democraticamente fino al 24 marzo scorso, vincendo due volte le elezioni. Ma i suoi avversari non hanno mai gettato le armi. Nel 2007 tutte le opposizioni armate hanno costituito la Seleka (“alleanza”) e messo in piedi una resistenza organizzata nel Nordest del Paese, a ridosso dei confini con il Ciad e il Sudan.

L’11 gennaio scorso, a Libreville (nel Gabon) era stato firmato un accordo fra il presidente e la coalizione degli insorti. La Seleka ha accusato il governo di non rispettare alcuni punti fondamentali: la liberazione dei prigionieri politici, il reintegro nelle forze armate delle milizie ribelli, il ritiro dei contingenti di Sud Africa e Uganda, presenti nella veste di forze di interposizione, ma accusati dagli oppositori di proteggere il potere del presidente. Ora è la Seleka che ha espugnato la capitale Bangui, preso il palazzo presidenziale di Bozizé e costretto il capo dello Stato a fuggire nel Congo e poi nel Camerun. Il capo della Seleka, Michel Djotodia, si è autoproclamato presidente. Ha dichiarato che rispetterà gli accordi di Libreville e che guiderà il Paese fino alle prossime elezioni del 2016.

Sembrerebbe una crisi fra le tante nell’Africa sub-sahariana, quasi ordinaria amministrazione nella tormentata storia della Repubblica Centrafricana. Ma il Paese rischia di diventare un nuovo Mali. Due, almeno, sono gli elementi che fanno temere una degenerazione della crisi: l’ideologia islamica dei ribelli e la necessità di un nuovo intervento francese. La Seleka non è nata islamica, non fa parte della galassia di Aqmi e delle altre organizzazioni vicine ad Al Qaeda, ma stando a numerose testimonianze locali, soprattutto di missionari cristiani, la componente jihadista sta iniziando a diventare dominante fra gli insorti.

La Repubblica Centrafricana è un Paese all’80% cristiano, ma il Nord Est, dove Seleka si è consolidata, è a maggioranza islamica. Contrariamente agli anni scorsi, gli insorti appaiono insolitamente ben armati e addestrati. Può non essere una coincidenza che l’escalation della guerriglia sia avvenuta proprio durante la guerra nel Mali. Le vittime dei ribelli sono soprattutto i cristiani. Le strutture più colpite sono missioni e chiese. Testimoni locali parlano di guerriglieri che si esprimono in arabo, provenienti dal Ciad e dal Sudan.

Juan José Aguirre Muños, il vescovo di Bangassou, città espugnata dalla Seleka l’11 marzo, aveva dichiarato all’agenzia Fides: “L’obiettivo dei ribelli è quello di rovesciare l’attuale governo e imporre un regime di impronta islamica. Questi sono jihadisti, probabilmente pagati da qualcuno dall’esterno. La situazione è molto simile a quella del Mali, ma il Centrafrica non sembra allarmare il mondo allo stesso modo”.

Secondo la testimonianza del vescovo, i ribelli: “Sono entrati a Bangassou l’11 marzo dopo essersi battuti con le poche forze centrafricane che erano in città. Hanno rubato una decina di macchine della missione, del seminario minore, della seconda parrocchia di Bangassou. Hanno distrutto la casa dei padri spiritani, delle suore francescane, poi hanno rubato e distrutto la casa del rettore del seminario minore diocesano, la falegnameria, il centro internet, il collegio cattolico, la pediatria, la farmacia, il nuovo blocco operatorio, la maternità. Hanno brutalizzato la popolazione, i padri e le suore. Hanno una lista di persone da colpire: io sono il primo, segue il mio vicario poi il procuratore ed altri. Hanno distrutto il comune, l’ospedale generale, gettando per terra gli ammalati che avevano la flebo al braccio per rubare il materasso. Hanno rispettato soltanto le moschee e i commercianti musulmani ai quali hanno dato parte dei nostri beni da vendere. In seguito i ribelli sono partiti su 15 automezzi stipati di oggetti rubati e Bangassou e si sono diretti a Bambari (a 400 km di distanza) lasciando una popolazione brutalizzata e impaurita, che si è dispersa nella foresta. Lungo il percorso hanno occupato una missione dopo l’altra, accampandosi nella casa dei missionari. Ora tranne le 3 missioni dell’Est, le altre 8 sono nelle loro mani”.

A Bangui, la capitale, i ribelli della Seleka hanno fatto irruzione nelle chiese, durante la messa della Domenica delle Palme, minacciando i fedeli, facendosi consegnare da loro soldi e chiavi delle auto. Anche a Bangui, stando a testimonianze locali, sarebbero in corso violenze e saccheggi analoghi a quelli visti a Bangassou. L’intervento francese sarà inevitabile, anche qui come nel Mali? Per ora Parigi non si è esposta più di tanto, anche se il contingente già presente è stato rafforzato con l’invio di altri 300 militari. La missione dei transalpini, per ora, si limita alla protezione dei concittadini residenti a Bangui e al presidio dell’aeroporto, in vista di una quasi certa evacuazione.

Un intervento più consistente, però, potrebbe rendersi necessario, soprattutto considerando che le forze di pace africane si sono rivelate inaffidabili. Il contingente del Ciad non si è opposto all’avanzata della Seleka e probabilmente è connivente. Il contingente sudafricano che presidiava Bangui non ha impedito la cattura della città e, nel corso dello scontro, ha subito 13 morti e 27 feriti. Non si è rivelato decisivo neppure il contingente dell’Uganda, presente nella Repubblica Centrafricana per dare la caccia al signore della guerra Joseph Kony e a quel che resta della sua “Lord Resistance Army”.

Quello di Bangui avrebbe dovuto essere un test importante per l’Unione Africana, per la sua capacità di mantenere la pace e l’ordine. Il test è andato male. Adesso dovrebbero essere i francesi a far da pompieri, se non vogliono correre il rischio di lasciare un altro Paese nelle mani di uno jihadismo ormai dilagante.


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